Si sa: il formaggio ticinese è unico e, anno dopo anno, si sta distinguendo in tutto il mondo per le proprie qualità organolettiche, frutto di una tradizione centenaria e del duro lavoro di persone competenti. Ma anche da una tradizione come la nostra può ancora sbocciare originalità. È il caso dei formaggi del Caseificio di Rita.
Arrivo a Chiasso in Via Sottopenz poco prima di pranzo e vengo accolto dalla padrona di casa con allegria e ospitalità. Sono qui per fare un’intervista a Rita Laudato che dal 2020 ha un piccolo caseificio, il più a sud di tutta la Svizzera, a Chiasso, in Via Sottopenz.
Il laboratorio in cui concepisce le proprie gustose creazioni, per ora tutte a base di latte vaccino (fra poco anche caprino e ovino), si trova proprio sotto casa sua, in quella che era un tempo la lavanderia, collegata alla cantina che è stata a sua volta trasformata e climatizzata per l’invecchiamento dei formaggi. «A me i convenevoli non piacciono; a me piace che una persona possa arrivar qui e sentirsi a casa», mi dice Rita mentre mi presenta un tagliere con molti dei suoi formaggi. La nostra intervista, abbinata a una ricca e squisita degustazione, inizia così, chiacchierando tra un boccone e l’altro.

“Formaggini” solo nella dimensione
Le preparazioni di Rita sono piuttosto piccole, ma scopro che non vanno minimamente confuse con i tipici formaggini ticinesi. «La mia attività è una tradizione che comincia», mi spiega. «Ci tenevo a non copiare le ricette tradizionali ticinesi perché non posso assumermi il diritto di continuare una tradizione di cui non faccio parte. Inoltre, immettere sul mercato gli stessi formaggi prodotti da altri genera una concorrenza in più che non è interessante per nessuno. Rispetto totalmente la tradizione e stimo le persone che le danno un buon seguito, però è anche bello poter portare innovazione». I formaggi di Rita vanno quindi chiamati, semplicemente, «“formaggi”, o “formaggi piccoli”. Ta pö mia dì che l’è un furmagin, perché l’è mia la stesa pascta; la pasta lattica, i fermenti, così come le tecniche che uso sono tutti diversi. I miei, poi, son tutti formaggi da far maturare, dalla Novena Bianca che matura per un minimo di venti giorni fino al San Giorgio che invecchia fino a un anno».
Da orafa a casara
Torniamo un po’ indietro nel tempo, perché la sua attività come casara Rita l’ha iniziata ufficialmente nel 2020, a 54 anni. Il suo primo lavoro, mi racconta, era stato quello di pittrice edile, seguendo le orme del padre, che l’aveva educata con una filosofia ben precisa: «quand ta set straca, l’è ul mument par iniziaa a lavuraa». Poi, col marito Mario, ha condotto il loro negozio di oreficeria, anche se mi dice che preferiva definirsi «una creativa». Venne poi la svolta quando la gioielleria fu rapinata e lei rimase ferita. «Ci sono delle svolte nella vita; a me, me l’han data quei proiettili. Bisogna saper reagire, fare il punto della situazione e andare avanti; essere padroni della propria vita e non lasciare che siano gli altri ad esserlo».
Capace di reinventarsi totalmente, Rita iniziò la scuola di casara a Mezzana nel 2012 e dopo i primi due anni, alla ricerca della possibilità di poter conciliare formazione ed esperienza lavorativa, perché «a 45 anni devi formarti già con l’esperienza», partì per l’Institut Agricole di Grangeneuve (FR). Allora, era perfino già nonna. «L’è düra lasaa la famiglia», mi racconta. «Se è il figlio che parte è un conto, ma se è la mamma è ben diverso. Però sono stata sempre supportata e, dopo tre anni, ho terminato nel 2019 ottenendo il brevetto». Così, dalla creazione di gioielli, Rita iniziò a creare tesori di tutt’altro tipo.

Il latte è vita
Quando chiedo a Rita come mai ha scelto di diventare proprio casara, lei mi dice sorridendo che ci si è buttata perché le piacciono le mucche. «La mucca per me rappresenta la classica mamma che tutti vorrebbero, la matriarca. La mucca inoltre ci dà il latte, la sua vita, rinunciando al suo bambino e a essere madre». Mi parla quindi di alcune sue originali creazioni, il Sieretto, un gelato prodotto con il siero del latte, parte restante della caseificazione, e lo Scottino, preparato invece con la scotta, il prodotto avanzato dalla preparazione della ricotta. «La vita che ci dona la mucca non è solo il 13% dell’estratto secco che abbiamo nel latte», mi dice, «e per questo motivo io il latte vorrei usarlo tutto, fino in fondo. Il mio lavoro di brevetto è stato proprio quello di presentare un prodotto nuovo che valorizzasse il siero del latte, che altrimenti ha un valore secondario, come foraggiamento o concime, o nella produzione di ricotta che viene a sua volta spesso considerata inferiore». E anche se una parte del siero va comunque «a foraggiare i maialetti», nella sua attività non esistono sprechi e non si può proprio parlare di “scarti”. Per Rita ogni minima parte del latte ha un valore, che lei è in grado di sfruttare con risultati stupefacenti.
Qualche assaggio intriso di filosofia
Assaggiamo il San Giorgio, la prima creazione di Rita, che mi ricorda vagamente un formaggio d’alpe ben stagionato e che è stato ideato «in onore dei miei morti di Morbio», prendendo il nome dalla chiesa del paese. «Quando ero piccola», mi racconta, «scappavo spesso di casa ed ero un po’ la figlia del paese. Ho tanti bei ricordi delle persone e degli odori dell’epoca e li ho voluti ricreare nel sapore del formaggio. Quando lo mangio, mi immagino la vecchia Morbio con le sue persone».
Proviamo poi la Novena Blu, che in estate diventa la Novena Blu Albina, uno dei formaggi per cui Rita è più conosciuta e sua seconda creazione in ordine temporale. Ancora giovane, maturata tre settimane, ha un gusto finale simile al roquefort, ma molto più delicato. «D’inverno diventa blu», mi spiega Rita, «mentre d’estate non sempre. Non si sa perché; non lo so io e non lo sa nemmeno chi ha ideato la muffa. A me però piace, perché nella vita bisogna imparare a saper accettare che le cose non vadano sempre come si desidera o nei tempi che si desiderano; la natura fa quello che vuole lei quando lo dice lei». Anche dietro a questo formaggio, ci sono altri ricordi. «Quando eravamo piccole, il papà obbligava me e le mie sorelle ad andare a Messa: la novena sono i nove giorni della Madonna da Morbi. E anche se non ascoltavamo molto le prediche del prete ed era un obbligo, fa parte della nostra tradizione. Ancora oggi, la mia Madona da Morbi la gh’è sémper».

Mi parla anche del Penz, che con le sue forme e particolari variazioni di colore rappresenta proprio la Collina del Penz, sopra Chiasso. E ancora, l’unico che non assaggio, Il Ciass, un tributo alla città di Chiasso. In dialetto sarebbe Ul Ciass. «“Il” è la parte evoluta di Chiasso, quindi espressa in italiano, rappresentata da una pasta morbida, elastica; “Ciass” è il gusto gentile e persistente che interpreta la sua popolazione, capace di adattarsi mantenendo però quel suo sapore sottile, la sua personalità e la sua tradizione».
Idee che maturano prima del formaggio stesso
Mentre Rita mi spiega i suoi formaggi, rimango davvero colpito dalla creatività e dall’affetto quasi materno con cui ne parla, come fossero vivi. Assaggiamo quindi la sua nuova invenzione, il Luppolo, un formaggio incredibile e squisito realizzato con birra IPA artigianale ticinese e nel quale si avverte proprio la tipica nota amara del luppolo.
Le chiedo come fa ad avere così tante idee originali. «È un processo che dura mesi», mi dice. «Il formaggio prima lo vedo nella mia testa. Poi cerco gli ingredienti e i fermenti da utilizzare, faccio qualche tentativo pensando anche alle mie possibilità e limitazioni, visto che il caseificio è piccolo, e vedo come si comporta. Poi però devo smettere, far maturare e avere la giusta ispirazione. Se non c’è, non faccio il formaggio. Adesso per esempio sto lavorando a uno nuovo, reinterpretando il latte di capra; vedo il risultato finale, ma non voglio buttar via il latte e aspetto il giorno giusto. Una volta che arriva, trovo la base e poi lavoro solo sul miglioramento del formaggio, grazie soprattutto al giudizio e al gusto della gente».
Un formaggio fatto con amore
«Io voglio bene ai miei formaggi», mi dice a un certo punto Rita ridendo. Per lei la cosa più importante è «valorizzare il lavoro del contadino e il latte in sé stesso, così da fornire ai miei clienti qualcosa di buono, reale e vero. Qualcosa di particolare, fatto con amore». Il latte utilizzato lo prende alla FTPL ed è tutto di provenienza ticinese, da insilato e senza aggiunta di lisozima, un enzima normalmente utilizzato in casearia come conservante. Per ora, Rita lavora soprattutto per la ristorazione «in tutto il Ticino e spero presto anche in tutta la Svizzera». Ciò nonostante, i suoi incredibili prodotti possono essere anche acquistati nel negozio di vendita diretta, il martedì e il mercoledì dalle 14 alle 18.30, e presso i principali mercati del Cantone.
Per tutti gli amanti del formaggio, posso senz’altro dire che ne vale la pena.
Andrea Arrigoni