Sassi e pietre sistemati con criterio non delimitano solo parti del paesaggio ma dividono anche epoche storiche. Le loro tracce rimangono inoltre nella nostra lingua.

I muri a secco rimandano al savoir-faire dei nostri vecchi, un paio di generazioni addietro, quando ogni edificio destinato a durare, casa, stalla o cascina, era in pietra e coperto con lo stesso materiale, sotto forma di piode. Tanto che nel mio dialetto il tetto si chiama piodei anche quando è in tegole o lamiera. In Vallese ho perfino visto vecchie stalle d’alpe in pietra e dal soffitto a volta, senza una sola trave, poiché si trovano parecchio sopra il limite del bosco.

Altri muri a secco sostengono i filari nei ronchi e i sentieri su terreno scosceso. Altri ancora cintano le proprietà o il deposito del letame. Come alternativa ci sono le file di lastre di gneiss conficcate nel suolo. Diventano ormai viepiù rare, come i muri a secco. Nelle zone d’alpeggio i muri a secco fungono da parapetto per evitare che pastori e bestiame precipitino da uno strapiombo o semplicemente sono stati costruiti senza una funzione apparente. Stanno lì, modesti, a testimoniare il paziente e costante lavoro dei pastori che nel corso delle stagioni d’alpeggio sgomberavano il pietrame dai pascoli mentre il bestiame brucava. E ogni inverno le valanghe trascinavano nuove pietre sui pascoli, e ogni primavera ne rotolavano altre sottratte alla montagna dall’effetto del gelo e del disgelo. E ogni estate i pastori spietravano e ingrandivano i muri. «Quello dietro la cascina di Leis l’ho costruito io», diceva mia nonna.

Ho letto di recente che i muri a secco delimitano anche due periodi della storia dell’umanità: segnano la transizione tra il Paleolitico, quando l’essere umano viveva in seno alla natura selvaggia, e il Neolitico, quando ha iniziato a impossessarsene. I nostri vecchi e i pochi eletti che ancora sanno costruire muri a secco sono quindi gli ultimi detentori di un savoir-faire plurimillenario.
I muri a secco sono un modello di convivenza tra l’essere umano, la natura e il paesaggio che lo circonda. Il tipo di pietra, prelevato in loco, svela immediatamente su quale substrato geologico ci si trova, granitico, calcareo o basaltico (quest’ultimo riservato alle zone vulcaniche). La tecnica di costruzione mostra varianti locali: nelle nostre contrade sono piatti al culmine mentre lungo la catena del Giura i muri a secco, in pietra calcarea, portano in cima una cresta di piode fittamente disposte come i libri su una biblioteca. In Islanda e in Marocco ho visto muri di cinta dall’apparenza approssimativa e disordinata, con un solo corso di pietre e interstizi talvolta così larghi che si vede attraverso. Eppure tengono.
Il muro a secco dà riparo a parecchi animali e la diversa esposizione al sole influenza la vegetazione che cresce ai piedi e sul muro stesso. La distribuzione della vegetazione sul muro dà indicazioni sulla meteorologia locale: abbondanza di muschio e felci anche sulla faccia soleggiata nelle regioni dalla forte pluviometria, vegetazione più scarsa e prevalentemente sul lato all’ombra nelle zone meno irrigate. Se abbonda il lichene si può presumere una buona qualità dell’aria. La presenza della vegetazione dà anche un’idea dell’età della costruzione: quelle recenti sono ancora nude.

Sull’intero arco del Giura e nell’omonimo cantone i muri a secco che delimitano prati e pascoli sono ancora frequenti e dal punto di vista paesaggistico fanno parte dei più noti cliché (in entrambe le accezioni del vocabolo) di quella regione. In parte vengono restaurati, poiché il savoir-faire che implica la loro costruzione è ormai iscritto nel patrimonio immateriale dell’Unesco. Molti però scompaiono, soprattutto nelle zone coltivate e quando sono in cattivo stato, poiché ostacolano il passaggio dei macchinari. Altri hanno già ceduto il posto al filo spinato. La convivenza con l’eredità culturale implica dilemmi e compromessi non sempre facili.

La fotografa ginevrina Christiane Yvelin ha passato parecchi anni a ritrarre i muri a secco delle creste del Giura, da La Dôle in terra vodese a Saint-Brais nelle Franches-Montagnes. Dalle sue fotografie è nato un libro che sottolinea la precarietà di questo elemento paesaggistico e patrimoniale, solido eppur fragile. Dal 5 marzo di quest’anno e fino al 23 febbraio dell’anno prossimo il giardino botanico della città di Porrentruy ospita un’esposizione temporanea sui muri a secco con fotografie della stessa artista.

Walter Rosselli