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Se in Ticino abbiamo visto le candele contro il gelo è stato grazie a lui. Rodolfo per più di 25 anni è stato il responsabile del settore vitivinicolo della Tenuta Bally, ma le prime esperienze le ha fatte nei vigneti dei Terreni alla Maggia. Prima di tornare in Ticino si è formato a Wädenswil, nel canton Zurigo. Dopo gli studi ha lavorato anche a Cully e Lütry sul lago di Ginevra e a Twann sul lago di Bienne. E adesso che ha compiuto i 65 anni? È in pensione? Macché.

E se partissimo dalle candele e dalla lotta contro il gelo?

«Il mio primo intervento contro il gelo è stato nel 2012 e non ho usato le candele. Era aprile. Dopo alcuni giorni di brutto tempo era arrivato il sereno, la notte si vedevano le stelle e sulle montagne c’era la neve a mezza costa. Prima di mezzanotte c’erano già zero gradi. Avevo lo Chardonnay fuori con tre foglie aperte e dovevo far qualcosa. Son partito da casa e, arrivato in tenuta, ho attaccato la bonza dei trattamenti con circa 50 litri d’acqua, giusto per non surriscaldare la pompa. Dalle tre di notte fino all’alba, a ripetizione, ho fatto un circuito ogni terzo filare per spostare l’aria».

Non ho capito, spostavi l’aria?

«Sì. L’aria fredda è in basso, a terra. Lì c’erano 2 gradi sotto zero. In cima al palo, a circa due metri, erano già 3-4 gradi sopra. È stato quello il primo intervento contro il gelo. Le candele sono arrivate molti anni dopo. In primavera ero sempre attento a come cambiava il tempo. Non ero tranquillo a starmene lì a guardare la tele o a leggere il giornale».

Ma non era uno stress?

«Chiaro, ero preso dalla cosa, però in modo positivo. Si balla solo un paio di notti a stagione e per me era sempre una sfida. Con le candele, ad esempio, la criticità principale era la velocità d’accensione. Con il cannello bisogna star lì quasi 15 secondi. Io ho trovato un sistema per accenderle in modo quasi istantaneo. Nelle varietà interspecifiche la scorsa primavera ne abbiamo accese quasi 400 e bisognava farlo nel minor tempo possibile, all’ultimo momento».

Ma non hai fatto sperimentazioni solo con le candele…

«Delle candele lo sanno tutti, perché si vedevano. Negli anni però mi sono concentrato molto anche su quali sistemi adottare per ridurre o eliminare i diserbanti nei vigneti. Ho provato una falciatrice regolabile in larghezza, per arrivare vicino ai ceppi. Poi con la Trèfle, che ruota attorno ai ceppi, ma c’erano troppi problemi meccanici. Ho testato anche il sistema con l’acqua calda che doveva scottare le radici delle erbacce, ma è molto caro. Ho fatto anche degli inerbimenti con la Pilosella ad esempio. Il risultato migliore però, finora, l’ho ottenuto con il Bromus tectorum sotto il filare. È quello che dopo l’introduzione dà meno lavoro».

Ma tornando ai tuoi inizi, da dov’è nata la passione?

«La passione per la viticoltura me l’ha trasmessa mio papà. La mia famiglia, da Scvizer tudesc, è venuta in Ticino all’inizio degli anni ’60. Mio papà è stato per quasi trent’anni viticoltore e responsabile della Cantina ai Terreni alla Maggia. Io son cresciuto lì. I mercoledì e i sabati pomeriggio, i miei fratelli ed io dovevamo aiutare in vigna. Quando facevano il diserbo, il papà e un suo collega, muniti di lancia con l’ombrellino, camminavano dietro al trattore, mettendo me alla guida nei lunghi filari. Ero ancora troppo piccolo e leggero e per riuscire a schiacciare la frizione dovevo far forza aggrappandomi al volante. Già dalla terza elementare, quando mi chiedevano che cosa volevo fare da grande, dicevo: “quello che fa il mio papà”».

E la formazione professionale?

«Quando ho finito le maggiori volevano mandarmi a fare l’apprendistato in banca. Io però volevo fare il viticoltore. A Mezzana, ai tempi, questa formazione non c’era ancora e così sono andato a Wädenswil. Ho capito in fretta che la viticoltura finiva con la vendemmia, allora ho proseguito per diventare enologo. Tornato in Ticino ho lavorato per un po’ ai Terreni alla Maggia, poi ho frequentato il corso di maestria. Quando un compagno turgoviese si è trovato senza un collaboratore per la vendemmia, sono andato al Schlossgut Bachtobel a Weinfelden per dargli una mano. Doveva essere solo per 5-6 settimane, ma poi abbiamo potato, piantato vigne eccetera fino a primavera. Lì ho imparato moltissimo, soprattutto sulla vinificazione dei bianchi, come Riesling, Chardonnay, Sauvignon Blanc. Al ritorno in Ticino ho impiantato i vigneti di Tamborini a Gudo. Il rientro è stato piacevole anche perché in Turgovia, con la nebbia, il cielo spesso non lo vedevi, o solo di sera».

Qual è la giornata tipo nel tuo lavoro?

«Non esiste una giornata tipo. Può cambiare in base alla stagione e al meteo, ma anche tutti i giorni. Certo, c’è un programma; bisogna seguire la vegetazione e adattarsi, se piove e non puoi fare un trattamento, lo fai appena possibile, la sera o la domenica non importa. Devi essere sempre pronto a cambiare programma. Però in un’azienda viticola con cantina si gestisce facilmente; ne approfitti per i lavori in cantina, travasi, spedizioni, etichettatura, quando fa “brutto”. Si esce invece con tempo piu favorevole. I lavori ci sono tutti i giorni, non mancano mai».

Tra cantina e vigna: meglio la prima o la seconda?

«Io non ho mai separato le due cose. Ci devono essere entrambe. Quando ho lavorato solo in vigna, come da Tamborini, un po’ ne soffrivo. La soddisfazione, per me, è vedere che cosa succede nel vigneto e scegliere o adattare i processi di vinificazione e se ci sono problemi, capire se derivano dalla vigna o dalla cantina».

Ma il vino si fa più in vigna o in cantina?

«Per me sono importanti tutti e due gli aspetti. Il miglior vinificatore con un’uva scadente non tira fuori niente di piacevole. Sono convinto che il vino inizi in vigna. Quelli che han detto che il vino si fa in cantina mi hanno sempre fatto sorridere e un po’ arrabbiare. Dovessi dare l’importanza in percentuale, direi 60% vigna, 40% cantina».

Della vinificazione in bianco del Merlot, cosa ne pensi?

«È una cosa positiva. L’obiettivo è quello di fare prodotti che piacciano, richiesti e facili da smerciare. La questione è come vinifichi: se per decolorare il vino usi carbone in dosi massicce allora è meglio lasciar perdere. Se invece raccogli la prima uva, facendo una prevendemmia o prendendo quella di piante giovani con gradazioni più basse che colora meno, e fai torchiature con uva intera, anche se la resa è minore, ha senso. È meglio magari avere un Merlot bianco che tende un po’ al salmone, come spesso è successo alla Bally, piuttosto che “svuotarlo” con molto carbone».

E a chi sostiene che il Merlot come vitigno abbia fatto il suo tempo e che bisogna cercare altri vini per nuovi abbinamenti, che cosa dici?

«Oggi, secondo me, con gli abbinamenti si è molto meno rigidi. Non bisogna pensare che il Merlot rosso vada bene solo con i prodotti tipici come carne, formaggio, polenta. Si può bere anche con una fondue o una raclette. Anzi, i tannini del Merlot possono anche aiutare la digestione, con un pesce si può abbinare un rosé o un bianco di Merlot. Di certo il tempo per il Merlot non è scaduto!»

Hai lavorato anche con le varietà interspecifiche

«Oggigiorno bisogna farlo. Non si può restare fermi; dobbiamo tutti assieme ridurre i fitofarmaci in agricoltura! Sono già una decina d’anni che ci sono varietà interspecifiche bianche valide e apprezzate dai clienti, come il Souvignier gris, il Muscaris o il Johanniter. Per i rossi invece c’è ancora da lavorare. Personalmente, a livello di gusti non ho ancora trovato una varietà interessante.».

Quando ti ho contattato volevo soprattutto chiederti della tua vita di pensionato dopo che hai smesso alla Tenuta Bally, però…

«Però in realtà non sono proprio pensionato. Cioè da un lato sì, perché il mio rapporto di lavoro con la Tenuta si è concluso, ma nemmeno il tempo di finire che un vecchio amico mi ha chiesto di aiutarlo. Al momento collaboro come consulente per un suo nuovo progetto, l’azienda vinicola Weingärtli, di Ennetbürgen nel canton Nidvaldo, che punta sulla produzione di spumanti».

E a casa, come l’hanno presa?

«Ogni tanto mi dicono cose tipo: “adesso che sei in pensione, che hai tempo, puoi guardare tu? Puoi fare tu?”, come se fossi solo in pantofole seduto sul divano. Anche se sanno benissimo come sono, che non so stare fermo. Io non ho un interruttore, ho sempre da fare ma posso gestirmi più liberamente».

Di sicuro Rodolfo, soprattutto in primavera, continuerà a guardare il cielo. Se sarà sereno e sarà scesa la neve a mezza costa, di certo non se ne starà con le mani in mano.

Cristian Bubola