Con la sua denominazione anglosassone, il foraging è una pratica che sta catturando l’attenzione di un sempre maggior numero di appassionati. Alla base, si tratta di un’attività antichissima e che molte persone, inconsapevolmente o meno, praticano ogni anno. Ma farlo davvero è tutta un’altra storia.

In Ticino il foraging si è fatto conoscere grazie ai consigli e all’esperienza di chi lo pratica da anni sul campo; prima di tutti Meret Bissegger, che offre regolarmente le proprie conoscenze tramite corsi di cucina ed escursioni alla ricerca di erbe.

In questi ultimi anni sta diventando un’alternativa motivata spesso da ragioni ecologiche, essendo una pratica che, se fatta con tutte le attenzioni del caso, è completamente sostenibile e non ha alcun impatto ambientale. In una cultura sempre più attenta e sensibile al cambiamento climatico, all’agricoltura intensiva, all’uso di pesticidi, ecc. il foraging diventa quindi uno stile di vita; una scelta con la quale un individuo può senz’altro ridurre la propria impronta ecologica. Senza dimenticare che si tratta pure di un’ottima forma di svago e di un’occasione per molti di evadere dalla quotidianità urbana e rilassarsi a contatto con la natura.

Un po’ di contestualizzazione

Se si vuole una definizione da dizionario, “foraging” indica la pratica di raccogliere il cibo che cresce in maniera spontanea nella natura, nel totale rispetto dell’ambiente. In alternativa, almeno per quanto riguarda la raccolta di piante, ci si può anche riferire all’alimurgia, lo studio vòlto a determinare i metodi di utilizzo delle piante selvatiche commestibili, spesso e soprattutto in tempi di carestia o crisi.

Eppure, la stessa etimologia del termine dimostra che si tratta di molto di più. Malgrado una forma medievale “foragium” che in italiano è evoluta in “foraggio”, foraging deriva dallo stesso comune antenato di “pane” e significa “andare a caccia di cibo”. Ecco perché questa pratica, in voga fin dall’antichità, non si riferisce soltanto alla raccolta di erbe, fiori, frutti e radici, ma a un corredo di alimenti ben più variato che comprende funghi, licheni, alghe e perfino carne e pesce.

Ma facciamo qualche passo indietro, perché malgrado il foraging vada sempre più di moda anche alle nostre latitudini, la sua è una storia molto antica.

Dialogo tra ieri e oggi

Sebbene non lo si chiamasse ancora così, il foraging rimase l’unico mezzo di sostentamento dell’uomo per svariate migliaia di anni. Questo fino all’avvento del Neolitico (ca. 10’000 a.C.), quando le culture nomadi abituate alla raccolta e alla caccia mutarono progressivamente in civiltà sedentarie sviluppando l’agricoltura e l’allevamento. Sembra poca cosa, ma fu proprio grazie a queste fondamentali invenzioni che l’uomo poté prosperare e diffondersi.

Perché, vale la pena sottolinearlo, il foraging non era sufficiente a sostentare gruppi nutriti; l’uomo era così costretto a spostarsi di continuo alla ricerca di cibo e all’inseguimento delle mandrie in costante migrazione. Va da sé che, originariamente, non si trattava affatto di una tendenza o di uno stile di vita alternativo: serviva a sopravvivere.

Per trovare il primo, vero uso registrato in lingua inglese di “foraging” con il significato di “andare a caccia” bisogna andare al 1768, contemporaneamente all’esordio del movimento artistico romantico. Tra le molte caratteristiche del Romanticismo, ve n’è una in particolare che in questo contesto suona famigliare: la Natura è una fonte di vita e arte; arte che a sua volta invita l’uomo a trovare sé stesso nella natura, sviluppando una sensibilità nuova che si oppone alla mentalità e al clima della rivoluzione industriale e dei primi ambienti urbani. Anche allora come oggi, una volontà di tornare alle origini e una risposta agli aspetti negativi del progresso tecnologico. Forse non si parlava di cambiamento climatico, ma di certo il bisogno di “tornare alle origini”, come testimoniano opere come “Walden di Henry Thoreau”, c’era già.

E tempi di pandemia

Il foraging moderno, però, apre un mondo di nuove opportunità alimentari, di scoperte e sorprese che crescono laddove non ce lo immagineremmo. I dati parlano chiaro: con la pandemia, molta più gente ha iniziato a fare escursioni e a trascorrere del tempo a contatto con la natura. Di conseguenza, come ci confermano Giorgio Valli e Claudia Klinzing (Tacalà), che a loro volta offrono le proprie conoscenze organizzando corsi sulle erbe selvatiche, «lo scorso anno c’è stato un notevole incremento di corsi»; se gli altri anni avevano «tra le due e le quattro richieste», la primavera scorsa ne hanno avute nove: persone che desiderano «riconoscere le erbe commestibili e curative, fare una passeggiata e raccogliere la propria insalata o l’erba curativa per una tisana.» Quando chiediamo loro il perché di questo aumento del tasso di interesse, ci viene risposto che l’insicurezza provocata dalla pandemia «potrebbe aver indotto le persone a chiedersi: “se il mondo andasse a rotoli, cosa mangeremmo e come ci cureremmo?”»

Non bisogna però dimenticare che, come molte altre attività svolte all’aperto, anche questa comporta dei rischi da non sottovalutare. Come ci spiega Meret Bissegger, «il foraging non va preso sotto gamba.» Prima di accostarcisi è necessario spendere del tempo nello studio delle piante, magari ricorrendo pure a qualche corso pratico sul campo. Anche perché, continua Meret, come per molte altre scienze, «più si sa, meno si sa; più si va avanti con lo studio della botanica, più ci si accorge di tutto ciò che si può confondere». Nella migliore delle ipotesi, un errore può procurare qualche dolore addominale o un po’ di nausea; in altri casi, però, può succedere di peggio. «Come si dice per i funghi», commentano Giorgio e Claudia, «“il dubbio è sempre indigesto”»; se la commestibilità di un’erba è dubbia è meglio evitare sgradevoli inconvenienti».

La tradizione del passato con la tecnologia del domani

Eppure, grazie alla tecnologia diventare foragers senza correre rischi sembra sempre più facile e accessibile. Ne sono un esempio le numerose app spuntate negli ultimi anni, che promettono di riconoscere piante e funghi con un solo click, fornendo talvolta informazioni utili anche sui loro usi medicinali e alimentari. «Di principio, le app vanno bene per divertimento e magari per avere una prima risposta», ci dice però Meret. «Io per esempio uso PlantNet. Però bisogna fare attenzione, perché dietro alle app ci sono algoritmi e non persone. Ho visto errori madornali sul web e anche su PlantNet. Senza un esperto, dal momento che si vuole mettere in bocca qualcosa, bisogna andare coi piedi di piombo». Anche Giorgio e Claudia ritengono che «le app sulle erbe sono ancora in fase di prova e non sono realmente efficienti; funzionano abbastanza bene sulle piante più conosciute e con i fiori sbocciati, ma altrimenti inducono spesso in errore».

Piuttosto, ci viene invece suggerito di affidarci a diversi buoni libri. «In Svizzera abbiamo la fortuna di avere un ricco compendio intitolato “Flora Helvetica”», ci dice Meret. «In alternativa al libro, esiste anche una app che è piuttosto completa».

Conosci il tuo nemico

Se si vuole approcciare il foraging, prima di imparare quali piante o quali parti di esse sono commestibili varrebbe quasi la pena concentrarsi su quelle che sono invece nocive, così da saperle distinguere e quindi evitare. In Ticino, per esempio, abbiamo il colchico autunnale (Colchicum autumnale) e il mughetto (Convallaria majalis), le cui foglie vengono spesso confuse con quelle dell’aglio orsino; imparare a identificarle può salvare delle vite. Poi vi sono tutte quelle altre piante che sono commestibili solo in parte o in un momento specifico del loro sviluppo. Come ci spiega Meret, il foraging comporta quattro problemi fondamentali: «il primo sta nel riconoscere la pianta che si ha di fronte. Il secondo è capire quale parte della pianta si può mangiare. Il terzo è sapere in quale momento dell’anno raccoglierla. E il quarto, chiaramente, sta nel saperla poi usare in cucina.»

Non dobbiamo però lasciarci intimidire. In fondo, anche prodotti molto famigliari come pomodori e patate sono le uniche parti commestibili delle loro piante, che per il resto sono tossiche a causa dell’alto tasso di solanina. L’unica differenza sta nel fatto che riconoscere la patata o il pomodoro, sapere come e quando raccoglierli o come cucinarli e abbinarli a tavola è ormai parte integrante della nostra cultura culinaria.

Quando il sostenibile diventa insostenibile

Quindi per praticare il foraging ci vogliono diversi anni di studio, di esperienza sul campo, con l’aiuto sì di app, ma anche di libri e di persone esperte. A questo punto, sorge spontaneo chiedersi cosa accadrebbe però se tutti cominciassero ad andare a raccogliere piante, funghi e bacche per boschi e campi. Perché mentre i nostri avi raccoglitori del Neolitico erano poco numerosi, se oggi tornassimo tutti a nutrirci esclusivamente di specie vegetali selvatiche, le conseguenze sarebbero rapide e catastrofiche. Perciò, ci si deve chiedere quali siano il giusto equilibrio e il giusto compromesso che il singolo deve attuare per abbassare la propria impronta ecologica preservando al contempo la biodiversità e l’ambiente.

La caccia, la pesca e la raccolta di funghi sono monitorate e limitate e nei primi due casi ci vuole una licenza. È risaputo che coloro che oltrepassano i limiti imposti dalla legge vengono puniti con multe molto salate. Nel caso delle piante, al contrario, non è sempre chiaro. Certamente, vi sono le specie protette e minacciate (2’613, stando all’ultima Lista Rossa elaborata da Info Flora nel 2019) e i divieti di raccolta nelle riserve naturali e nei parchi nazionali, ma per quanto riguarda tutte quelle varietà comuni e/o infestanti, il discorso si fa un po’ più incerto.

«Durante i miei corsi ho smesso di trattare alcune specie, anche se sono molto buone», ci dice Meret. «In ogni caso, bisogna fare appello al buon senso delle persone. Bisogna saper valutare ciò che si fa, magari osservando anche come la zona che frequentiamo cambia di anno in anno o cercando di capire se un posto viene frequentato da altri foragers. Tra di noi vi sono delle regole non scritte, vòlte proprio a salvaguardare i luoghi di raccolta ed evitare che le piante si estinguano».

Ma, come in ogni cosa, non tutti sono pronti a scendere a compromessi. «Sulle alpi italiane, in alcuni punti la raccolta di determinate specie è vietata e capita che i locali si spostino da altre parti per raccoglierle, anche in grandi quantità. Io prediligo soprattutto quegli esemplari che si definirebbero “erbacce”, ossia che disturbano i terreni agricoli portando via luce e nutrimento agli ortaggi».

Il caso delle specie invasive

Il discorso cambia quando parliamo di quelle specie invasive, non autoctone e che nuocciono al giusto equilibrio dell’ambiente. Come ci spiega Meret, «molte specie invasive sono commestibili e non dobbiamo avere remore nel raccoglierle. In Ticino siamo fortunati (o sfortunati) e ne abbiamo tante». Ne sono degli esempi la robinia (Robinia pseudoacacia), di cui si possono mangiare i fiori, il poligono del Giappone (Reynoutria japonica) e l’uva turca (Phytolacca americana) che si raccolgono quando sono ancora molto giovani, ma anche la cespica annua (Erigeron annuus), la saeppola canadese (Conyza canadensis), la verga d’oro (Solidago gigantea) e la verga d’oro canadese (Solidago canadensis).

A molti sarà poi capitato di veder crescere un po’ ovunque quelle che si definiscono “erbacce”, ma che in realtà possono essere molto apprezzate, se si sa come usarle. Tra queste si annoverano per esempio la peverela o erba di galin (Stellaria media), la borsa di pastore (Capsella bursa-pastoris), la la galinsoga ispida (Galinsoga quadriradiata), la porcellana (Portulaca oleracea) e la piantaggine (Plantago lanceolata o Plantago major), ma la lista è lunga e sorprendente, tanto che se si volesse, si potrebbe fare un’insalata bella ricca e saporita anche in un parcheggio o in un cantiere.

Andrea Arrigoni