Gli oggetti ci parlano. Spesso restano rinchiusi in cassetti o dentro armadi e vengono dimenticati. Si riscoprono soltanto in momenti particolari. Fare un trasloco è anche fare un bilancio, riflettere su quello che è stato e quello che sarà. In circa trent’anni di vita a Sant’Antonino, è stata accumulata una quantità di materiale incredibile.
Il registro dell’alpe di Motterascio
«Franco e Rico facevano legna o pulivano il formaggio mentre io, dopo aver pulito il barcone, lavavo i panni della giornata. Alle quattro e mezza Giuseppe ritornava con le mucche, bevevamo un po’ di caffè e per la seconda volta nella giornata facevamo cantare i secchi e pian piano si riempivano, si svuotavano ed erano di nuovo pieni per svuotarsi di nuovo per numerose volte e quando avevamo finito, il sole se n’era già andato, promettendoci un altro giorno, faticoso sì, ma tanto bello».
Scriveva nel 1980 in corsivo Loretta Giuliani, all’interno di un quaderno con la copertina di plastica nera, che viene descritto come “Un libro di ricordi del personale che ha lavorato a Motterascio dal 1961 al 1982”. Andando a ritroso, si può leggere in data 8 luglio del 1965:
«Proprio questo giorno cade l’ultimo tetto in piode a Motterascio (Degiorgi Giuseppe). Abbiamo scelto un legno della carpenteria complicata del tetto della capanna vecchia e con questo costruito la croce in ricordo di coloro che sudavano nel trasporto a spalle di questi travi (…)».
Uno stralcio di un testo firmato da Franco Vanzetti e Brenno Allegranza. Nomi su un foglio a quadretti, brevi pensieri, descrizioni di lavori e naturalmente il numero di capi caricati alla voce “Bestiame”.
«Nel 1968 a Motterascio erano state caricate 79 vacche, 111 sterle e 15 maiali».
Non mancano mai nemmeno i prodotti: latte, formaggio, burro, i giorni di alpeggiatura e la produzione media di latte.
Da un lato i dati nudi e crudi dell’attività alpestre e dall’altro slanci per descrivere l’indescrivibile: l’esperienza indimenticabile di più stagioni all’alpe. Un’esperienza che ancora oggi fa nascere l’amore e la passione nei giovani per il mestiere di contadino.
«Davanti al contadino di alta montagna dovremmo sentirci tremendamente inutili. Sono più rari delle stelle alpine, di quelle che crescono sulle più alte cime. Chi prenderà il posto di questa stupenda creatura che sfida e non teme, quando se ne andrà nell’al di là?»
Se lo chiedeva Elvira Rigazzi oltre cinquant’anni fa: una domanda ancora oggi legittima e urgente. Di tutti i documenti e i veri e propri reperti che abbiamo ritrovato negli archivi, il valore di questo registro scritto a mano è per me inestimabile e forse varrebbe la pena trascriverlo tutto, per ricordare la fatica e la passione di chi le stagioni all’alpe le ha fatte e per chi le farà. Il quaderno si conclude con delle quartine firmate Giovanni Derighetti, il ricordo di una giornata.
Nella corte antistante
Che spettacolo ammirare
Una mandria ruminante
che si lascia accarezzare
Il bianco latte è già lì pronto
Per produrre i suoi buoni frutti
Questo poi non teme confronto
È un buon alimento che piace a tutti
È il prodotto principale
Di una stagione all’aria fina
In una cornice naturale
Circondati da selvaggina
Una giornata in compagnia
Di gente buona, disposta al lavoro,
Volete scacciare la malinconia?
Vi consiglio di passare un’estate con loro.

I disegni, le foto e i pensieri dei bambini
Proprio in questi giorni, all’Unione Contadini, a darci una mano con il trasloco c’è Sara Derighetti, parente di chi ha scritto quelle parole sul registro dell’alpe Motterascio quasi cinquant’anni fa. Sara ha riempito e trasportato un’infinità di scatoloni e le volte che ha fatto avanti e indietro dalle benne degli ingombranti e della carta non si contano. Non abbiamo avuto il cuore, io e Sara, di gettare le foto dei bambini che facevano la vendemmia o provavano a fare il formaggio oppure che mostravano fieri due patate enormi. Con le foto c’erano anche dei pensierini, scritti su delle strisce di carta.
«Potevamo accarezzare una gallina grigia. Era bellissima. Le sue piume erano morbide morbide».
Leandros e Julian.
«Abbiamo visto il toro. Aveva il pelo lungo e grandi corna». Rachele e Lisa
«Il Landini è un trattore molto bello. Si accendeva con una bomboletta che scaldava la sua testa. Faceva un gran rumore». Ian e Martino
«C’erano due caprette e tre capre adulte». Diego
«Ci siamo un po’ spaventati perché le capre facevano la lotta. Però erano carine». Davide e Nicolò
Non siamo riusciti a ricostruire in che occasione erano state scattate le foto e la questione dell’archiviare e poi recuperare del materiale è davvero molto complicata. In questi ultimi trent’anni i supporti informatici e audiovisivi hanno conosciuto uno sviluppo incredibile. Diapositive, fotografie, Floppy disk, VHS, DVD, CD. Mi è capitato di pensare che le nuove tecnologie invecchiano davvero molto in fretta. Certo riusciamo a immagazzinare una quantità incredibile di dati, ma poi riuscire a recuperarli e visionarli diventa una missione quasi impossibile. Perdiamo sempre qualcosa, si sa, e qualcosa guadagniamo. I buoni vecchi libri però rimangono oggetti facili da consultare e da capire, insomma oggetti che durano.
Qualche chicca e una conclusione che è una ripartenza
Nell’incrocio di tecnologie in cui siamo immersi, un po’ per vanità e un po’ perché i titoli di alcuni volumi che abbiamo ritrovato mi sono sembrati davvero bellissimi, ho scattato delle foto e le ho messe su Instagram, come ad esempio: “L’asino, nella storia, nella statistica, nella poesia” di Angelo Tamburini, o il volume “Alpicoltura”, parte quinta della nuova enciclopedia agraria italiana o il “Manuale agrario pei fanciulli di campagna”. Quest’ultimo volumetto è stato proprietà di Insermini Modesta, che l’ha inviato anni fa all’Unione Contadini. Omar Pedrini aveva visto la foto in Instagram e quando è passato a trovarci, mercoledì scorso, ha subito voluto vederlo. È un volume delicato, difficile addirittura da tenere in mano, che si apre e si struttura in piccoli dialoghi, dove una D. indica il docente e una R. il ragazzo che risponde. Il primo capitolo si intitola:
“Dell’Agricoltura in generale e quindi dei terreni”.
E l’inizio del dialogo è il seguente:
D. «Che cos’è l’agricoltura?»
R. «L’agricoltura è l’arte di coltivare la terra onde averne ricolti migliori e più abbondanti».
D. «In che consiste principalmente quest’arte?»
R. «Consiste primo nel conoscere i terreni; secondo nel migliorarli; terzo nel lavorarli».
Sono quattro righe che mi hanno fatto pensare a una discussione avuta qualche mese fa con qualcuno che ha sottolineato a più riprese l’importanza del suolo: “Perché è dal suolo che parte tutto. Tutto. Tutto il nostro sistema alimentare”.
Ma non solo quello, anche il sapere racchiuso in tutti i volumi che che negli ultimi trent’anni sono stati sugli scaffali degli armadi di Sant’Antonino sono ancora rinchiusi nelle scatole, ma pian piano troveranno il loro spazio e il loro nuovo ordine a Cresciano, grazie al lavoro di Sem, Claudia, Prisca, Anita, Urs, Carolina, Cristian, Andrea, Sara, Amedeo, Federico e Boris.
Cristian Bubola