Quando si parla di latte e di formaggio, le espressioni che si sentono più spesso sono le seguenti: «il latte è vivo», «il latte cambia in base a quello che mangiano gli animali», «senza un latte buono, è difficile fare un buon formaggio». Tutto vero. Ma è quasi tutta materia per profani, o quasi.

Se si inizia a parlare di trasformazione del latte, di coagulazione, caglio e colture batteriche la faccenda si complica, e di parecchio. Sembra quasi un processo magico e spesso viene narrato, in modo superficiale, proprio così. Ma forse i più negletti, i più trascurati, nel processo che trasforma il latte in formaggio sono gli enzimi.

Che cos’è un enzima

Per capire che cos’è un enzima e cercare di spiegarlo ho coinvolto nell’impresa Patrizia Riva Scettrini, ingegnere in economia lattiera, che lavora per l’Ufficio della consulenza agricola della Sezione dell’agricoltura. Dopo diversi tentativi di approccio al tema, considerate le mie scarse conoscenze di chimica, le ho chiesto un’affermazione semplice, elementare, che potrebbe capire anche un bambino. E la prima frase da cui sono partito è stata questa:

«Un enzima non è un essere vivente».

Non so, forse per molti che stanno leggendo è un’affermazione banale, scontata. Ma da dove saltano fuori gli enzimi? «Nel formaggio vengono prodotti dai batteri. Sono i batteri che hanno bisogno degli enzimi per garantirsi il metabolismo, vale a dire per vivere e nutrirsi». Anche noi in realtà produciamo enzimi, così come tutti gli altri esseri viventi. Nel nostro corpo lavorano incessantemente 450’000 enzimi diversi che ci permettono, tra le altre cose, di trasformare gli alimenti. Di fondo, quindi, gli enzimi, per rimanere sul semplice, sono degli strumenti che servono a scomporre i macro-elementi (zuccheri, proteine e lipidi) che noi non saremmo in grado di assorbire. O per lo meno, non saremmo in grado di assorbire così in fretta.

Un formaggio Bleu agli Swiss Cheese Awards.

Sia il caglio, sia la coltura batterica, hanno come scopo principale l’attività enzimatica

La funzione coagulante del caglio è dovuta proprio alla chimosina e alla pepsina. Due enzimi che troviamo anche all’interno del nostro corpo. Per molte fonti, l’origine e la scoperta del caglio risalgono a circa 8-10’000 anni fa, in area mesopotamica, e il mito vuole che un pastore abbia messo del latte fresco in un otre fatto con lo stomaco di un capretto per conservarlo. Con sua enorme sorpresa, quando decise di bere scoprì che il latte era coagulato. Ancora oggi, il caglio, nel disciplinare dei principali formaggi DOP, deve essere di origine naturale. Così recita ad esempio il disciplinare del Formaggio d’Alpe Ticinese DOP: “È autorizzato soltanto il presame a base di caglio naturale, animale, in polvere o liquido, non di organismi geneticamente modificati”. Possiamo dire che la chimosina è la principale responsabile di quella magia che trasforma il latte in formaggio, agendo sulle proteine. Ma se, come detto prima, nel nostro corpo ci sono circa 450’000 enzimi e ognuno serve a scomporre un determinato macro-elemento, chimosina e pepsina sono solo la punta dell’Iceberg.

Torniamo al processo e vediamo di conoscerne qualcuno in più di questi enzimi

Sempre Patrizia Riva Scettrini: «Il batterio, di fondo, non è altro che un veicolo. Quando vengono messe le colture batteriche nel formaggio, ad operare le trasformazioni dei macroelementi sono gli enzimi, non i batteri». Ma quindi i batteri, oltre a produrre gli enzimi, non fanno nient’altro? «No, fanno qualcosa anche i batteri, anche se sempre tramite la produzione di una sostanza. Ad esempio, se i batteri di una coltura producono gas, anidride carbonica, il formaggio avrà l’occhiatura, altrimenti ne sarà privo». Ma la notizia che a produrre i buchi dell’Emmentaler, circolata parecchio qualche anno fa, fosse la presenza di particelle di fieno è una bufala? «No, no per niente! Uno studio effettuato presso Agroscope ha evidenziato che le molecole di gas hanno bisogno di una sorta di nucleo per potersi aggregare. E questo nucleo è proprio rappresentato dalle particelle di polvere di fieno disperse nel latte». Mi sono fatto prendere la mano da questa storia degli occhi prodotti dal gas e per un attimo ho trascurato gli enzimi. Se invece ti dico lipasi? «Nella trasformazione del formaggio sono gli enzimi che trasformano, spezzettano, le molecole della materia grassa». Proteasi? «Lo dice già il nome, è il gruppo di enzimi che digeriscono e scompongono le proteine». E finiamo con la lattasi, che, forse, ci permetterà di arrivare al dunque. «La lattasi è l’enzima che scompone il lattosio in glucosio e galattosio. È diventata sempre più importante, in questi ultimi anni, per la questione delle intolleranze. Il lattosio viene scomposto naturalmente nei formaggi, però ci vuole davvero molto tempo. È per questo motivo che gli intolleranti possono mangiare un formaggio stagionato diversi mesi praticamente senza conseguenze, ma non un formaggio fresco». Però esistono anche formaggi freschi per gli intolleranti al lattosio. «Certo, e per fortuna! Per ottenere questi prodotti la lattasi viene dosata in un determinato momento del processo di produzione. Questa operazione riprende e raffigura la definizione classica che diamo all’enzima ovvero di catalizzatore della reazione. Altrimenti detto la reazione di scissione della molecola del lattosio viene accelerata così che al formaggio bastano alcune ore invece di mesi per aver completato il processo di scomposizione dello zucchero».

Patrizia Riva Scettrini.

Perché scegliere di dedicare un approfondimento agli enzimi?

Credo sia un po’ questo il nocciolo della questione. Se infatti, spesso si parla di «latte vivo», «latte che cambia in base a quello che mangiano gli animali» e «se si sa che senza un buon latte è difficile fare un buon formaggio», anche il modo in cui lo si tratta a livello microbiologico fa la differenza. Una prima risposta che si può dare al titolo del paragrafo è perché in realtà sono gli enzimi gli artefici dei processi di scomposizione dei macro-elementi. Più che i batteri, sono loro a fare il lavoro sporco. Ma allora, Patrizia, perché si usano i batteri e non si iniettano direttamente gli enzimi? «Una prima risposta è certamente di carattere storico: a parte il caglio, gli enzimi sono apparsi sul mercato in questo secolo, direi. La seconda è di carattere economico: gli enzimi costano parecchio. E la terza, quella che mi sta più a cuore, è di carattere etico: usando i batteri, il margine che lasciamo al processo naturale è ancora ampio. Se utilizzassimo soltanto gli enzimi giocheremmo un po’ al piccolo chimico». Ma l’utilizzo della lattasi lo consideri “etico”. «Il discorso è molto complesso. Credo però che se un piccolo produttore decide di impiegare la lattasi per offrire il suo prodotto, artigianale, anche ai clienti intolleranti al lattosio abbia un senso. Se invece si utilizzano gli enzimi per programmare un formaggio fin nell’ultimo dettaglio o per modificarne le caratteristiche o anche quando si potrebbe non usare, allora c’è un problema».

Potresti farci un esempio?

«L’esempio che calza a pennello è quello dell’enzima lisozima, che si ricava dall’uovo e dal momento che l’uovo è un allergene, deve essere dichiarato in etichetta. Questo enzima agisce sulle spore di alcuni batteri in particolare bloccandone la germinazione. In questo modo si impedisce a questi batteri di moltiplicarsi e se ne riduce la crescita che provocherebbe il gonfiore dei formaggi stagionati. Questi batteri, innocui per l’uomo, si trovano nel latte dopo la mungitura e in numero maggiore nel latte prodotto utilizzando insilati (quindi non il fieno). L’utilizzo è etico se avviene in queste particolari condizioni e se viene dichiarato. Non lo è se viene utilizzato per fare della concorrenza impropria. Inoltre i produttori di formaggio svizzero DOP hanno sottoscritto, nel 2002, una dichiarazione volontaria di rinuncia a questo e ad altri additivi».

Cristian Bubola