Una passione, quella per la frutticoltura, che lo accompagna da tutta una vita; dalle pianure francesi alle colline vallesane, per poi tornare in Ticino, prima a Cadenazzo e poi a Biasca. Oggi Alberto si gode la meritata pensione nel suo piccolo angolo di paradiso: il frutteto.

I primi anni di formazione

Classe 1945, nato e cresciuto a Biasca, dopo aver frequentato le scuole dell’obbligo e il Ginnasio (scuole medie), ha ottenuto il certificato di licenza alla Scuola Agraria di Mezzana. 

Agli inizi degli anni Sessanta, Alberto Sassella si è trasferito a Losanna, dove ha conseguito il certificato di Collaboratore tecnico alla prima Scuola superiore di frutticoltura. Dopo il diploma ha trascorso qualche mese di lavoro a Changins (a Nyon nel canton Vaud), dove si trova la stazione federale di ricerche agronomiche. «Volevo fare un po’ di esperienza prima di immergermi nel mondo lavorativo», mi dice Alberto. Dopo aver acquisito una certa dimestichezza con gli “strumenti del mestiere”, ha deciso di intraprendere una nuova avventura e raggiungere la zia in Francia per iniziare a lavorare nell’azienda di famiglia. 

«Conoscevo già molto bene Parigi», mi racconta, «perché d’estate andavo spesso a trovare gli zii. Partivo da Biasca con il treno fino a Basilea, dove prendevo la locomotiva a vapore fino alla Gare de l’Est, e da lì attraversavo tutta Parigi fino alla casa della zia. 

Ho deciso dunque di partire per questa esperienza che avrebbe sicuramente arricchito ancor di più il mio bagaglio professionale e personale. La zia insieme al cognato gestiva un negozio di frutta e verdura, un po’ come spesso accadeva all’epoca a molti Bleniesi di Malvaglia che si trasferivano in Francia. Avevano inoltre un frutteto di 30 ettari (peri, meli e prugni) e fino al 1971 sono rimasto a lavorare lì».  

In Francia: la notte dei commercianti

Ed è così che, a Parigi, Alberto ha la possibilità di vivere la realtà del frutticoltore a 360 gradi. «Lavoravo nel frutteto, nei mercati locali e mi recavo spesso a Les Halles, il mercato più grande d’Europa. Les Halles era il centro nevralgico di Parigi, dove giungevano e da dove partivano tutte le merci per i parigini. Tutte le sere, dopo cena, partivo dall’azienda con il furgone o con il camion e portavo la nostra merce in questi grandi magazzini. Era una specie di gigantesco deposito che, dopo la mezzanotte, veniva aperto ai commercianti che iniziavano l’acquisto dei prodotti fin verso le 5 della mattina. Prima, i commercianti facevano il giro dei vari settori per riservare la merce. In seguito ritornavano a caricarla su degli appositi veicoli elettrici, les diables, per poi portare il tutto nel proprio negozio e venderlo la mattina seguente. Anche noi acquistavamo la merce che ci serviva. Una volta rientrati al negozio, di buon mattino, preparavamo le bancarelle sul marciapiede, esponendo accuratamente e con criterio i prodotti in vendita». Mi spiega che una buona presentazione della merce esposta era molto importante, perché, come si suol dire: “anche l’occhio vuole la sua parte”. Ogni spazio della bancarella aveva il suo scopo; l’angolo legumi, l’angolo delle patate, l’angolo delle mele, eccetera. Gli chiedo allora di raccontarmi della clientela. Mi dice che ai tempi avevano proprio un bel giro: «se dovessi trovare una differenza tra i clienti dell’epoca, tra il Ticino e Parigi, forse i clienti francesi erano un po’ meno esigenti di quelli ticinesi. Avevamo un bel riscontro; i nostri clienti apprezzavano quei piccoli accorgimenti che, di solito, fanno la differenza. 

Per farti un esempio, a chi acquistava i pomodori regalavamo insieme un mazzetto di prezzemolo, perché i parigini si sa, di solito, non hanno un orto». Più che di un mercato, si trattava di una vera e propria esposizione che durava fino alle 13 del pomeriggio. Alberto mi dice che poi la vendita si chiudeva per riaprire dalle quattro del pomeriggio alle otto di sera. A conclusione di giornata bisognava riportare tutto dentro e pulire il marciapiede. 

Alberto Davanti a Imperial Gala a Cadenazzo (Agroscope), 2004

La vendita procedeva bene, ma quando gli zii decidono di iniziare a partecipare anche ad altri mercati di paese per incrementare i guadagni, per Alberto il lavoro aumenta. «C’erano dei punti di vendita con bancarelle e degli orari precisi. Noi avevamo la fortuna di avere diverse varietà di mele e di pere, dunque le persone passavano volentieri da noi anche a chiederci dei consigli sulle qualità da acquistare per i diversi usi. Vi era poi la suddivisione tra i mercati frequentati soprattutto dalle persone facoltose, ai quali si destinava la merce migliore e gli altri, prevalentemente nei villaggi di operai, ai quali venivano invece vendute merci un po’ più “alla buona”. Abbiamo anche costruito un negozietto fuori dal centro, sulla strada nazionale, la principale, e, quando la gente la sera rientrava a Parigi, si fermava spesso e volentieri a comprare la sua cassetta di frutta. Siamo riusciti in questo modo a sostenere la concorrenza e a cavarcela discretamente». 

Mi racconta anche che non era l’unico ticinese a lavorare come frutticoltore: «conoscevo molto bene il Brentini di Biasca, famoso per il soprannome “Le Roi des Marons”. Ai tempi aveva infatti il monopolio delle “castagne sulla piazza” di Parigi; era un vero e proprio imprenditore». 

Gli chiedo se oggi conosce ancora quei mercati, e come è cambiata la realtà dei commercianti a Les Halles. «Non essendo più nel giro, trovo difficile esprimere una giusta considerazione sulla realtà del giorno d’oggi. Torno spesso a Parigi ma per vacanza. Quello che è certo è che, aumentando le restrizioni, anche l’agricoltore ha meno possibilità di vendere i propri prodotti dove vuole e, di conseguenza, anche i mercati si riducono. Oggi, se dovessi tornare al mercato di Parigi, troverei al massimo un paio di produttori locali, gli altri sono tutti algerini o marocchini. E comunque, a  Les Halles non c’è più nulla; adesso si è spostato tutto a Rungis». 

La vita nei frutteti, tutt’altro che rosea

«Il lavoro nei frutteti francesi era molto duro e le condizioni climatiche spesso lo rendevano anche peggiore», mi racconta Alberto. «In autunno e in inverno, quando la temperatura scendeva oltre i dieci gradi sotto lo zero, avevamo molte difficoltà a sopportare la permanenza all’esterno. Gli anziani ci avevano insegnato a usare la tela dei sacchi di patate per avvolgere i piedi così da tenerli il più possibile al caldo: le chiamavano le chaussettes russes. Il lavoro di potatura avveniva tutto a mano e, su 30 ettari di frutteto, vi assicuro che era piuttosto lungo. Bisognava ingegnarsi e trovare delle tecniche per non diminuire la resa. Io e il mio collaboratore facevamo cinque o sei piante su una fila e poi ci spostavamo su un’altra, così ci sembrava di rendere molto di più. Erano delle piccole strategie per mantenere una certa lucidità. Durante il periodo della raccolta poi impiegavamo almeno una ventina di persone al giorno. 

C’erano alcune signore che venivano a darci una mano nella raccolta. Ricordo molto bene che controllavamo sempre le loro mani. Se avevano le unghie lunghe, gliele facevamo tagliare. Le unghie infatti potevano ferire il frutto facendolo marcire e un frutto marcio può compromettere un’intera cassetta. 

Avevamo poi delle tecniche soprattutto per la protezione del raccolto dal gelo che, al giorno d’oggi, sono severamente proibite. Ad esempio disponevamo nel frutteto delle file di copertoni che incendiavamo. In questo modo, il fumo sprigionato proteggeva le piante come una sorta di cappa ed evitava che il gelo danneggiasse il raccolto. Oggi sono tecniche che per ovvie ragioni non si usano più. Attualmente si dispone di candele oppure si procede con l’aspersione sopra le fronde degli alberi. 

Abbiamo costruito anche delle celle frigorifere per mantenere la frutta che deperiva velocemente. La stalla delle mucche è diventata un magazzino per le mele. Con dei ventilatori cercavamo di mantenere la giusta condizione climatica per la conservazione della frutta; di notte aspiravamo l’umidità data dal muschio bagnato e l’aria fresca, mentre dall’altra veniva eliminato l’etilene dei frutti.

L’amore sbocciato tra i filari

Si dice che Parigi sia la città dell’amore e per Alberto è stato proprio così. Un amore sbocciato tra i filari del suo frutteto con una giovane ragazza della regione di nome Gabriella, giunta lì quasi per caso. «Come spesso succedeva durante le vacanze estive, per racimolare qualche soldo ci si metteva a disposizione per la raccolta delle mele» mi racconta Gabriella che nel frattempo si è seduta proprio accanto a noi. Ed è così che le loro strade si sono incontrate: «ci siamo sposati in Francia, dove abbiamo anche avuto il nostro primo figlio. Poi, in seguito alla nomina di Alberto ad Agroscope nel 1972, ci siamo trasferiti a Cadenazzo e circa una decina di anni fa abbiamo riattato la casa qui a Biasca. Non avrei mai pensato di vivere in Ticino, ma per amore, si fa questo e altro». 

Il ritorno in Ticino

«Nel 1972 sono stato nominato Responsabile per la frutticoltura a Cadenazzo (Agroscope)», continua Alberto. «Prima di iniziare però ho voluto approfondire ulteriormente le mie conoscenze trascorrendo un anno a Conthey, presso la stazione federale del Vallese. Nel frattempo ho anche fatto la maestrìa in agricoltura e colture speciali. Quando ho iniziato a Cadenazzo, le prove erano soprattutto rivolte alla pratica, vale a dire alla ricerca di nuove varietà e tecniche colturali, forme d’allevamento e portainnesti. A Cugnasco si sono avviate le prime prove per poi continuare a Cadenazzo dove avevo un ettaro di frutta. Poi i cambiamenti all’interno della stazione si sono susseguiti e la superficie frutticola ticinese è diminuita. Ho dovuto così reinventarmi e mi sono dedicato maggiormente ai piccoli frutti. Abbiamo fatto alcuni esperimenti: uno a Castro sui mirtilli e uno più importante a Sonogno, sui mirtilli e sui lamponi. Ci siamo detti che per la valle sarebbe potuta essere una coltura interessante da sfruttare come un’ “entrata in più”. Abbiamo fatto un esperimento anche in Alnasca: dei privati hanno piantato tremila metri quadri di mirtilli. Per diversificare le colture ho pensato poi ai piccoli frutti arbustivi, perché potevano inserirsi molto bene nel concetto di biodiversità. Un tentativo è stato quello di piantarli sulla discarica di Croglio. Tutti progetti che hanno iniziato pian piano a prendere piede e a insediarsi tra gli appassionati. Ancora oggi, qualcuno si dedica alla coltura dei piccoli frutti, soprattutto i mirtilli giganti americani.

Qualche anno dopo mi sono lanciato anche nelle erbe officinali con la COFIT di Olivone, che disponeva di un essicatoio alla Cima Norma. Abbiamo assistito con delle consulenze i nuovi coltivatori in numerose parti del cantone. Anche se all’inizio c’era un bell’entusiasmo, è andato tutto un po’ scemando, soprattutto per il fatto che bisognava portare le erbe a essiccare e diventava dispendioso in termini di tempi e costi. Ho anche fatto, negli anni, delle prove di conservazione e un lungo lavoro di analisi della qualità delle castagne, con delle degustazioni. In collaborazione con il WSL (l’Istituto federale di ricerca per la foresta la neve e il paesaggio) e l’Agroscope di Wädenswil, insomma, una miriade di progetti diversi».

La meritata pensione

«Nel 2012 sono andato in pensione. Ora mi occupo dei corsi per adulti e di quelli per l’Associazione dei Frutticoltori Ticinesi. Era il 1972 quando sono entrato a farne parte e dal 2011 sono il presidente. Il nostro scopo è quello di proporre dei corsi di vario tipo che presentino le conoscenze tecniche per una conduzione moderna del frutteto famigliare. Vogliamo informare le persone interessate sulle possibiltà che hanno di gestire il proprio frutteto in modo ecologico e rispettoso dell’ambiente. Io ci credo molto. Spero che qualche giovane pian piano possa avvicinarsi e appassionarsi a questa meravigliosa attività, com’è successo a me».

Prisca Bognuda