Immagini di una realtà quotidiana, vista da pochi occhi, là, dove pascolano le nostre pecore.

Ci sono posti vicini che non si immaginano. Posti conosciuti fin nel minimo dettaglio da quei pochi che ancora ci vanno. E quando loro smetteranno di andarci, quei posti, per certi aspetti, smetteranno di esistere. Forse sono posti di cui bisognerebbe tacere, perché a parlarne già si rovinano.

Si tratta di veri e propri paradisi per alcuni e forse, per essere tali, devono rimanere conosciuti da pochi. Claudio Papa, che tutti chiamano Gnora, quando lo incontro a Biasca, mi dice: «Non scrivere niente», mi ripete, «se ti piacciono, metti soltanto le foto». La volontà, precisa in un certo senso, è quella di non voler trasformare in straordinario, clamoroso, roboante, una vita e una pratica, quella dell’allevamento ovino, che non han misura nel cuore di chi le vive da diverse generazioni, ma che devono restare qualcosa di semplice.

Le foto di Claudio sono davvero bellissime. Foto molto complicate da scattare per qualcuno che lì non ci vive, da qualcuno che magari in quei posti ci passa soltanto per un’escursione. Riuscire ad essere lì al momento giusto, in quel paesaggio, avvicinarsi agli animali senza spaventarli, e scattare foto così non è affatto facile.

È da tempo che so per certo che le foto migliori, tanto dei paesaggi quanto degli animali, rimangono spesso rinchiuse nella memoria dei telefoni cellulari dei contadini e mi è capitato un’infinità di volte di vederne e di chiedere se potevamo pubblicarle. A volte ci siamo riusciti e a volte no. Con il passare degli anni, spesso mi è anche capitato di pensare che andava anche bene così. È vero, spesso non sono riuscito a pubblicarle certe foto davvero spettacolari, che avrebbero detto e mostrato molto di più del mondo agricolo rispetto a quanto sarei riuscito a fare io con la mia macchina fotografica, in una visita di un’ora o due. In fondo, anche quelle foto sono figlie di quel tempo lungo, che è soltanto loro, dei contadini, ed è giusto che rimanga così.

Per caso però mi è capitato di vederne alcune delle foto scattate da Claudio e mi sembrava davvero un peccato relegarle in pochi centimetri nelle ultime pagine del giornale, così come mi sembrava un peccato pubblicarle senza citare l’autore o spiegando dove fossero state scattate.

Ho deciso così di andare a incontrarlo un sabato pomeriggio di inizio novembre a Biasca. Appena mi vede, mi dice che non c’è molto da raccontare. Se voglio però basta un attimo per fare il giro delle due stallette e dei recinti lì al piano. Una pecora ha appena partorito e sui suoi pantaloni vedo le macchie di sangue rappreso. «È andato tutto bene», mi dice. Quest’anno sono nati già quindici agnelli. Quasi tutti parti gemellari. Quando ci avviciniamo al recinto dove ci sono una decina di belle pecore, mi spiega che hanno tutte un nome e che gli piacciono i nomi italiani: «Brenda, Loretta, Florina, Sofia, Prisca». Nel pomeriggio quel recinto verrà spostato, poco più in là.

Claudio me lo spiega mentre ci spostiamo verso la stalletta dove ci sono la pecora che ha appena partorito e il suo agnello. Sulla porta della stalla che dà sulla stradina ci sono appese alcune foto e alcuni disegni di pecore. Anche i disegni li fa Claudio, partendo dalle foto degli animali, o da quelle degli elicotteri.

Sotto il soffitto basso della stalla lì a Biasca, mentre la pecora che ha appena partorito bela appena e ci guarda, Claudio inizia a parlarmi dell’alpe di Borsgian in Val Pontirone. È quello il posto vicino che difficilmente si immagina a cui ho accennato all’inizio dell’articolo. Si tratta di uno degli alpi più piccoli e sassosi del cantone, però ci cresce un erba di un verde incredibile. Un paradiso per marmotte e stambecchi. Ogni anno quando salgono per portar su le pecore, c’è sempre la preoccupazione per l’acqua e adesso anche quella per il lupo. In tutto l’alpe c’è soltanto un punto in cui l’acqua sgorga in superficie, sotto una parete di roccia. Anche quest’estate, per fortuna, l’acqua c’era.

Dal nucleo di Mazzorign per arrivare all’alpe di Borsgian bisogna camminare un paio d’ore, ma per fare tutto il giro dell’alpe ce ne vuole qualcuna in più.

Claudio ha da poco compiuto i trent’anni e mentre mi parla di Mazzorign e dell’alpe di Borsgian, è come se di continuo trattenesse un’emozione incontenibile. Mi mostra nelle foto i Püpp di Borsgian, delle formazioni rocciose naturali spettacolari, che testimoniano l’eccezionalità della valle. Così come la vecchia cascina del suo trisnonno Emanuele, detto Manuelìn perché era piccolo, una costruzione ormai unica nel suo genere: bassissima e con accanto un porcile ancora più basso. Ma mentre lo fa, mentre mi racconta il valore affettivo che lui e la sua famiglia provano per quei posti, mentre insiste mostrandomi il verde di quell’erba che cresce circondata dai sassi, è costante la preoccupazione di non voler apparire straordinario.

Non c’è niente di straordinario in tutto questo, sembra che ripeta. Niente da far diventare spettacolare. Certo, da alcune cose che mi dice di sua mamma e di suo papà, per loro, così come per lui, non esiste un posto più bello al mondo. Però si tratta di un posto normale, distante poche ore di cammino da casa, a patto di avere gambe buone per arrivarci.

Gli agnellini nati da qualche giorno sono con le madri in un piccolo recinto. Cerco di scattare qualche foto, ma ho la macchina scarica. Tornerò qualche giorno più tardi. Ne ho fatte diverse di foto a quelli agnelli e mentre li fotografavo io, anche un ragazzo che passava di lì si è messo a scattare qualche foto con il telefonino, magari per mandarla alla sua morosa.

Ma che cosa ne so io di quegli agnelli? Quanto vale una mia foto fatta di fretta in pausa pranzo? Poco, davvero poco. Certo, alcune mi piacciono. Sono anche contento di come sono uscite, anche se una mia amica fotografa mi dice che ho sbagliato obiettivo e che c’era una luce tremenda. Ma sono altri criteri, e valgono quel che valgono.

Per finire, sono contento di essere riuscito a mettere in pagina all’interno dell’Agricoltore, alcune delle foto che mi ha spedito Claudio. Godetevele, perché parlano da sole.

Cristian Bubola