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Quel miele cremoso che nasce sul confine


A tu per tu con Geo Sala, apicoltore che da 15 anni porta avanti la sua azienda in fondo alle Centovalli, a poche decine di metri dal valico di Ponte Ribellasca.


Una pompa di benzina, con relativo negozietto e macchinetta del caffè, sempre in funzione. Un ristorante, chiuso per l’inverno, e in basso la fermata della Centovallina. Prima del ponte che porta oltreconfine, gli edifici della dogana. In strada molte auto di frontalieri che corrono in entrambe le direzioni passando attraverso le case, molte delle quali fredde. Benvenuti a Camedo, dove Geo Sala ha deciso di voler lavorare.


«L’apicoltura è un lavoro dove sei spesso da solo, ma farla nelle Centovalli è… un surplus di solitudine. Qui ho però trovato le condizioni ideali, dato che trovare spazi in pianura sarebbe stato economicamente insostenibile. E poi, da Tegna – dove abito con la mia compagna – ci vuole solo un quarto d’ora, non sono così fuori dal mondo!»


Cremoso e biologico

L’oggi quarantatreenne Geo, dopo la formazione come agricoltore, si è dapprima dedicato ad altri impieghi, presso la Società ticinese per la selezione delle sementi e in seguito nel sociale, alla Pro Infirmis e in un istituto per ex tossicodipendenti. Poi, un giorno, la svolta.

«Ho cominciato con le api nel 2001: tre arnie, tanto per provare. A furia di aggiungerne, un giorno ho fatto due conti e capito che avrei potuto vivere solo di quello. E mi sono lanciato. Dopo molte traversie, che mi hanno fatto vagare per tutto il cantone, sono finito nelle Centovalli, dove ho potuto acquistare – grazie all’aiuto dell’ERS Locarnese e di Berghilfe – un ex negozietto situato proprio sulla strada cantonale, che ho tramutato in magazzino e laboratorio».


Camedo, Borgnone, Costa, Verdasio, Palagnedra, Corcapolo. E ancora: Avegno, Gordevio, Lodano, Aurigeno. Le arnie di Geo, sparse nelle valli locarnesi, superano le tre centinaia. Il loro frutto principale è ovviamente il miele, declinato in un’unica varietà e che raccoglie principalmente pollini di tiglio, castagno e rododendro. Il suo punto di forza è la cremosità: tutto merito di un’operazione tutto sommato semplice, dice lui, vale a dire una lenta rimestazione durante la fase di cristallizzazione che impedisce la formazione di cristalli di grosse dimensioni. Un’altra particolarità è la produzione biologica.

«La differenza principale, rispetto al miele convenzionale, riguarda i trattamenti contro la Varroa, dato che nel bio puoi usare solo acidi organici e non acaricidi con molecole sintetiche. Inoltre, posso dare loro da mangiare solamente zucchero bio. La scelta della produzione biologica mi è sembrata coerente col fatto che la chimica usata nell’agricoltura, soprattutto quella intensiva, è purtroppo una delle principali nemiche dell’apicoltura, nonostante le api siano “strumenti” fondamentali per la stessa agricoltura. Per me, è quasi una forma di rispetto».


Geo Sala al lavoro nel suo laboratorio.
Geo Sala al lavoro nel suo laboratorio.

L’apicoltore tuttofare

Nel periodo invernale il lavoro si concentra però sulla produzione di fogli cerei, ossia quei piccoli telai che vengono poi inseriti nelle arnie e che fungono, per così dire, da “base” sulla quale le api costruiscono. Oltre al macchinario destinato alla loro produzione, dal laboratorio fa capolino anche una grossa impastatrice. Su un banco da lavoro, grossi sacchi di nocciole e mandorle da tostare. Aggiungi bianco d’uovo, frutta e miele ed ecco il torrone, prodotto da Geo assieme all’apicoltore altomalcantonese Guido Macconi.

«Abbiamo iniziato molti anni fa, durante un periodo nel quale si faticava a vendere il miele. Abbiamo pensato a un suo utilizzo alternativo ed è stata una scelta azzeccata, dato che nella stagione fredda viene molto apprezzato. A dire la verità non “spingo” molto sulla vendita… Anche per questo motivo, vendo buona parte del miele a un grossista. A me piace lavorare e sporcarmi le mani: ho installato anche un piccolo laboratorio di falegnameria, per costruire e riparare le arnie, ma lo stesso magazzino l’ho costruito io, assieme ad alcuni amici. L’unica cosa “già fatta” sono state le finestre!»


Un anno da dimenticare

Se negli anni normali si ottengono mediamente dai 20 ai 25 kg di miele per arnia, le cifre dell’anno scorso sono state da profondo rosso, con un calo di quasi due terzi.

«Degli anni ci si vive, mentre in altri si sopravvive. Il 2024 è stato uno di questi ultimi. Con tutta l’acqua che è caduta in primavera, le api hanno volato poco, le famiglie si sono sviluppate male e quindi la produzione è calata, costringendomi a correre per nutrirle ed evitare che morissero di fame. Inoltre, il grosso del raccolto nelle Centovalli lo faccio con il tiglio, pianta che quest’anno non ha però fiorito, probabilmente a causa della siccità degli anni scorsi che ha causato un esaurimento delle sue energie».

Come in molti altri settori, anche nel lavoro con le api ci sono sempre nuove problematiche all’orizzonte, dalla già citata Varroa destructor alla Vespa velutina. Ma non è finita qui.

«A preoccupare sono anche i cambiamenti climatici, con il tempo che diventa sempre più balordo. Passi l’estate a guardare il cielo col mal di pancia, temendo una grandinata – e relativa distruzione delle fioriture – a ogni temporale. Rispetto a vent’anni fa è diventato un lavoro molto più stressante, che ti fa stare sempre sul chi vive».



L’idillio che non c’è

Le api sono al momento in una specie di letargo, in attesa della primavera, ma basta un po’ di sole e di caldo per vederle svolazzare fuori dalle arnie. A gennaio-febbraio partono le prime covate legate alla fioritura del nocciolo, seguite dalle verifiche sulla presenza o meno delle api regine. Per poi ricominciare da capo, un anno dopo l’altro, con la passione che aiuta a superare le avversità.

«Molti hanno un’idea romantica e bucolica dell’apicoltura, ma è sbagliata. Sotto al sole, con la maschera in testa, fa un caldo tremendo. Inoltre devi sempre muoverti in maniera morbida per non far agitare le api, anche se in certe giornate è impossibile e me ne torno a casa con 50 punture. C’è chi dice che riconoscono l’apicoltore, ma io non ci credo: per loro, noi siamo coloro che arrivano a scombussolargli la casa e rapinarle del lavoro che hanno fatto. È uno sfruttamento come un altro, ma perlomeno mi impegno per farlo nel modo più corretto possibile».





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